Sacha lavora in uno dei dipartimenti marchigiani di emergenza impegnati nella gestione del Covid 19. “Stiamo mettendo da parte le nostre famiglie, le nostre vite. Lavoriamo con una tuta che ci copre dai capelli ai piedi e dalla quale dobbiamo essere fuori in tre ore o rischiamo la disidratazione e le piaghe al volto. Mio figlio sa che a lavoro aiuto le persone che hanno la bua e che in questi giorni in tanti hanno bisogno della sua mamma”.

“Penso che aiutare chi sta male sia il lavoro più bello del mondo. Ma ho anche paura per i rischi che corre la mia famiglia. Ogni giorno, uscendo di casa, non so mai cosa troverò al di là di quella porta gialla. Anzi forse lo so, ma spero sempre, sbagliando, che sia più leggero di quello che penso”. Sacha è infermiera da 19 anni. Lavora nel dipartimento di emergenza di uno degli ospedali regionali attualmente impegnati nella gestione dei pazienti affetti da coronavirus. A casa, ogni giorno, ad aspettarla c’è suo figlio di 4 anni. “Lui sa che nel mio lavoro aiuto le persone che hanno la bua. Gli ho spiegato che in questi giorni ci sono tantissime persone che hanno bisogno della sua mamma e che, anche se ci vediamo un po’ meno, lui è sempre il mio principino”. Una vita professionale e personale stravolta dall’emergenza, con tutte le difficoltà nel conciliare il ruolo di infermiera con quello di mamma. “I miei turni non sono più uguali. L’altro giorno mi sono dovuta fermare 4 ore in più per preparare il mio reparto alla gestione di questa situazione. Purtroppo anche la mia vita familiare attualmente è un casino; mio figlio non sa più quando sono a casa con lui e quando sono a lavoro”. Un momento difficile per Sacha e per un’intera categoria professionale, chiamata alle armi per garantire la tenuta delle nostre strutture ospedaliere. “Spero davvero che passato tutto questo, la visione che molti hanno di noi infermieri cambi: in questi giorni stiamo mettendo da parte le nostre famiglie, le nostre vite, e non lo facciamo di certo per un posto fisso. Basti pensare che stiamo lavorando non con la nostra solita divisa verde, ma con una tuta che copre dai capelli ai piedi e dalla quale dobbiamo essere fuori entro 3 ore altrimenti iniziamo a disidratarci e i nostri volti potrebbero piagarsi”.  E l’ombra del contagio? “Che io venga contagiata non lo vedo come un problema. Lavoro con dispositivi di protezione individuali specifici. Ogni giorno mi trovo davanti al pericolo, che si chiami coronavirus o HIV o altro. Certo non ne sarei felice, ma fa parte del mio lavoro. Il contagio della mia famiglia invece, quello mi spaventa”.

Oltre l’emergenza, restano le difficoltà quotidiane. “Essere infermiera, soprattutto da quando sono in rianimazione, ed essere madre non è semplice. Tutti mi dicono che ho molto tempo da trascorrere con mio figlio grazie ai turni, ma la realtà è ben diversa: sono sempre stanca. Passare un Natale con la mia famiglia è come vincere alla lotteria. E nella mia testa ho molte paure legate alla mia professione. La mia è una rianimazione traumatologica. Purtroppo questa realtà si mescola con la mia vita. Nonostante ciò, sono fiera del mio lavoro, piango e rido insieme a lui. Solo noi infermieri sappiamo cosa significhi abbracciare un’altra madre, piangere con lei per il figlio morto in un incidente, mentre hai le mani sporche del suo sangue. E dopo qualche ora tornare a casa ed essere strafelice di stringere tuo figlio tra le braccia. E trattenere le lacrime perché dentro di te vivi ancora tutto il dolore di quella madre”.

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