La storia di una mamma marchigiana che a marzo 2020, a poche ore dal lockdown, ha subito un aborto spontaneo.

Ero di otto settimane. Avevo passato l’intero pomeriggio a giocare a ping pong con il mio piccolo di 4 anni: asilo chiuso da un giorno, pandemia nell’aria. Mi sentivo stanca. La mattina seguente ho iniziato a sanguinare. Poche perdite scure. Allarmata, ho immediatamente chiamato il mio ginecologo. “Stia tranquilla e aspetti. Vada al pronto soccorso se avverte dolore o se le perdite diventano rosso vivo”. Nessun dolore. Niente di niente. Ma le perdite continuano, a poco a poco. E, l’alba seguente, sento che qualcosa è cambiato: l’addome sembra più rilassato e quel retrogusto terribile in bocca, che mi aveva accompagnato anche con la prima gravidanza, si era dileguato.  Lui non c’era più. E nel momento in cui l’ho capito, mi sono vestita in fretta e ho svegliato mio marito ancora nel letto: “C’è qualcosa che non va. Vado in ospedale”. Sola. Lui a casa con il piccolo, a cui non potevamo dare in così poco tempo una sistemazione alternativa.

Mi accoglie il pronto soccorso di una delle strutture della nostra regione. Non farò il nome. Questa non è una denuncia. Ciò che è accaduto lì, sarebbe potuto accadere ovunque. Il problema non è dove, ma come sia possibile e perché. Il pre triage si fa al citofono. Ma questa cosa, nella preoccupazione del momento, non la capisco. Quindi mi infilo nella porta scorrevole dietro ad un uomo arrivato prima di me. Una leggerezza che mi costerà una bella strigliata dall’infermiera di turno. Lei, visibilmente stanca e provata, pone le stesse domande a tutti, come un disco rotto: “È stata in Cina di recente? A Milano? Ha avuto contatti con persone che hanno frequentato questi luoghi? Ha tosse, febbre o altri sintomi influenzali?”. “No. Sono incinta. Ottava settimana. E ho un sanguinamento”. Vedo sollievo nel suo sguardo. Come se per un attimo potesse mettere da parte timori e maledetti protocolli. La cosa mi ferisce. Percepisco leggerezza nelle sue domande e nelle sue risposte. Il pronto soccorso è completamente deserto. Non ci sono emergenze prima di me. Ma io capisco immediatamente di non essere affatto un’emergenza. “Devo sentire se il ginecologo può vederla subito. Probabilmente ci sarà da aspettare un po’”. Aspettare? Ma io sto perdendo mio figlio. Forse l’ho già perso. Torno in sala d’attesa. Vorrei sedermi, ma non ci riesco. “Il dottore la visiterà tra un’ora”. Un’ora. Sola, in un pronto soccorso vuoto, con la cartellina dell’ultima ecografia fatta due settimane prima in mano. Un’ora interminabile. Un’ora che non dimenticherò mai.

Finalmente mi fanno salire in reparto. Un’ostetrica mi chiede di accomodarmi nella sala d’attesa all’esterno. La dottoressa arriverà tra poco. Vicino a me due quasi mamme raggianti. Due meravigliosi pancioni. Stringo più forte la cartellina dell’ultima ecografia. Provo ad aggrapparmi alla speranza: forse non è tutto perduto. Arriva una donna sulla cinquantina in camice: “Lei viene dal pronto soccorso, giusto?”. Annuisco. “Venga la faccio accomodare in ambulatorio. Due minuti e arrivo”. Una piccola stanza: una scrivania, due sedie, un separé e l’ecografo con lettino. Penso al mio piccolo, a casa con papà. A quanto ero spaventata all’idea che saremmo diventati quattro. E a quanto lo vorrei adesso. Provo a tranquillizzarmi, ma non ci riesco. Passano 45 minuti e io sono ancora lì. Sola. Sono arrabbiata, ora sì. Sono stanca. E mi chiedo se è davvero questo il trattamento che viene riservato alle donne che arrivano “sanguinanti” in ospedale. Covid o non Covid.

Tocca a me. Sono in due: la dottoressa della sala d’attesa e un’altra, molto più giovane. Mi preparo per l’ecografia. Sono sola. Il mio cuore è un tamburo: prego perché i miei battiti possano dare una spinta a quelli del mio piccolo. Chiudo gli occhi. L’ecografo entra. In postazione c’è la dottoressa che mi ha accolto. Guarda lo schermo, inespressiva. “Che cosa le aveva detto il suo ginecologo all’ultima ecografia?”. “Che il feto era piccolo. Forse la gravidanza era da ridatare. Ma il battito c’era. Ce lo ha fatto anche vedere”. “Sicura?”. Mi stava davvero chiedendo se ero sicura di aver visto il battito di mio figlio? “Si certo… perché?”. Scuote la testa, proseguendo nella sua inespressività. “Non c’è battito. Il feto è molto piccolo rispetto alle settimane. Non farei molto affidamento su questa gravidanza. Succede. È assolutamente normale, non si preoccupi. Può rivestirsi”. Quindi? L’avevo perso? E me lo diceva così? Senza fremiti, senza emozioni, senza chiarezza? Che scema: chissà quante volte avrà ripetuto una diagnosi come quella, magari a donne con gravidanze molto più avanzate… Io ero solo una otto settimane. Che cosa potevo pretendere?

Mi sono rivestita, sperando di poter scappare immediatamente da lì. E invece no. La dottoressa più giovane stava compilando il referto. Dovevo attendere ancora. “In queste situazioni” aveva preso a spiegarmi l’altra “noi consigliamo di contattare il proprio ginecologo per decidere il da farsi. Si aspetti dolore e un sanguinamento molto abbondante nelle prossime ore”. Il da farsi? In che senso? Non avevo nemmeno il coraggio di chiederlo. “Avevo una visita fissata con il mio ginecologo tra due giorni. Devo anticiparla?” “No assolutamente. Può aspettare e vedere come va”. Scoppiai a piangere. L’autocontrollo era terminato. Mi guardarono entrambe dispiaciute, ma io cercavo disperatamente nei loro occhi qualcosa che non c’era. “Questa reazione ci sta, non si preoccupi.  Ma leggo qua che lei è giovanissima e ha avuto già una gravidanza. Avrà tante di quelle occasioni, vedrà! Deve stare tranquilla”. Qualche minuto di silenzio. La più giovane aveva ripreso a scrivere. “Ecco quindi come ti dicevo prima – per loro il mio caso era già chiuso – mia figlia era disperata perché con la suocera in quelle condizioni, bisognosa di assistenza, non sapeva proprio come organizzarsi”. Era mamma anche lei.  “Questo è il referto, lo faccia vedere al suo ginecologo. Non le do la mano perché le misure anti Covid lo sconsigliano”.

Mi sono messa in macchina e sono tornata a casa sola. Sola ho dovuto dire a mio marito cos’era accaduto. In realtà non ho dovuto dire nulla. Lui lo ha capito dai miei occhi. Sola ho riabbracciato il mio piccolo, trattenendo la disperazione. E nelle ore successive ho aspettato con angoscia quella “perdita abbondante e quei dolori” che non sono mai arrivati, cercando on line il significato di quel “da farsi” che sembrava un terribile taboo. Mi sono sentita in colpa per aver giocato un intero pomeriggio a ping pong, stancandomi forse troppo. In colpa per tutte le paure e i dubbi che avevo avuto dopo aver scoperto quella gravidanza. E sola, dopo due giorni, sono entrata nell’ambulatorio del mio ginecologo. Proprio lui, dopo aver letto il referto, senza che io dicessi nulla, mi ha guardata negli occhi: “Lei non ha fatto nulla di sbagliato. Non deve sentirsi in colpa in alcun modo. Quello che le è successo purtroppo è una cosa che può accadere. Il 20% delle gravidanze iniziali possono risolversi con un aborto spontaneo. Mi rendo conto che i numeri non giustificano niente e non rendono certamente la sua perdita meno dolorosa. So che il dispiacere è grande. Sia forte”. Perdita. Finalmente qualcuno lo aveva detto. Ho scoperto che potevo scegliere quale strada intraprendere: aspettare un’espulsione naturale, la famosa perdita abbondante di cui sopra, o accelerare i tempi per via farmacologica/chirurgica. Informazioni mai lette, mai ricevute, che sarebbe stato bene conoscere a prescindere dal problema. Perché l’aborto sale agli onori delle cronache solo quando è una scelta. Ma per molte è un’esperienza che piomba addosso senza volerlo. E non ci sono protocolli, non c’è sostegno psicologico nella maggior parte delle strutture che accolgono ogni giorno donne sanguinanti.

Ho scelto di attendere che la natura facesse il suo corso e così è stato, dopo tre giorni da quella visita. Erano solo otto settimane, è vero. Ma come si può non considerare affatto quanti pensieri, quanti progetti, quante aspettative e quante paure passano ogni minuto nella testa di una donna in attesa? Figuriamoci in una settimana, in due, in tre, in otto. Come si può non considerare che quel feto che non batte più, nella testa e nell’anima di chi l’ha voluto e concepito era già un figlio? Come si può non considerare che una donna sola, di fronte ad una diagnosi negativa, può avere bisogno di attenzione, supporto, di parole giuste e sguardi veri? Perché non le stiamo dicendo che la busta di latte che ha nel frigo è scaduta. Le stiamo dicendo che la vita che portava in grembo si è spenta. Un contenitore vuoto, colmo di dolore: siamo sicuri che il problema sia il Covid?

Rispondi

%d blogger hanno fatto clic su Mi Piace per questo: