di Fabrizio Baleani

A volte uno dei migliori certificati d’insana e frolla costituzione di un’epoca è la lingua che la descrive.  Lo dimostra il conio nuovo di zecca di un neologismo dal suono d’oltremanica e dal senso sinistro, ormai  tristemente divenuto alla moda,  non soltanto nei Paesi anglofoni in cui è nato. Il termine deriva dall’unione di “she” e “recession” ed indica come, da oltre due anni, siano le donne a subire in modo prevalente gli effetti  della crisi pandemica.

A determinare la “Shecession” su scala nazionale, è un gap salariale antico e al contempo  inasprito dalle conseguenze dell’emergenza, un divario retributivo di genere  assai elevato, causato da fattori atavici come la diffusione del part- time involontario, la discontinuità delle carriere professionali e l’odioso pregiudizio che sbarra ancora l’accesso ai ruoli apicali a lavoratrici plurilaureate e qualificatissime. Se si studia la distribuzione locale del fenomeno,  indirizzando lo sguardo all’economia marchigiana,  si scorgerà l’impatto settoriale della crisi che ha penalizzato ambiti  ad alta densità di lavoro femminile nei quali, spesso, l’occupazione presenta i connotati  della micro-industria e dell’autoimprenditorialità che la rendono particolarmente fragile ed esposta agli shock economici. Secondo il Rapporto Annuale 2021 dell’Osservatorio regionale sul mercato del lavoro, l’occupazione femminile accusa una flessione ben più accentuata di quella maschile(rispettivamente-3,0% e -1,6% ). Inoltre, il ritiro dall’attività lavorativa fa registrare un dato allarmante (+6,9% contro il +3,2% riguardante gli uomini).  È significativo che percentuali considerevoli della popolazione femminile, dall’inizio della situazione pandemica, siano fuoriuscite o siano state spinte ai margini del mercato del lavoro: le inattive sono aumentate di oltre 11.600 unità (+6,9%).  Il dato appare ragguardevole  sia  se confrontato alle cifre che interessano la componente maschile della regione, in aumento del +4,9% (circa 5.140 individui in età lavorativa) sia rispetto ai “numeri in rosa” del  resto del Paese in cui l’incremento  alla voce “inattività” si è fermato  a +3,7%. Sono dinamiche che raccontano l’allargamento  spaventoso della forbice tra i generi segnalato da tutti gli indicatori più rilevanti: in  riferimento al tasso di attività la differenza sale da 13,2 a 14,8 punti percentuali; per il tasso di occupazione si sale da 14,8 a 15,5; per il tasso di inattività da 13,1 a 14,8. Qualche numero in controtendenza  si è manifestato nel primo semestre del 2021 con 41.000 nuove assunzioni accompagnate, tuttavia, da un  contrappunto negativo: il crollo dei tempi indeterminati (-86%).

Sarà mai possibile invertire la rotta? Lo abbiamo chiesto a Rosita Garzi che insegna Sociologia dei processi economici e del lavoro al  Dipartimento di Filosofia, Scienze Sociali, Umane e della Formazione dell’Università di Perugia.

Il tema è spinoso– afferma la ricercatrice umbra- per capire quali strumenti possano sortire un inversione di tendenza occorre ipotizzare le cause del fenomeno. Come emerge, probabilmente la pandemia ha messo a dura prova il lavoro delle donne perché più precario, in settori più esposti al rischio e perché il carico della cura della casa e dei figli (o degli anziani), causato dalle diverse ondate da Covid 19, ha particolarmente gravato sulle donne costringendole a volte a lasciare il lavoro. Per questo sarebbe importante riflettere sull’adozione di alcuni strumenti utili e che in altri contesti hanno portato a buoni risultati. Si veda per esempio i Paesi scandinavi dove da decenni si registra un alto tasso di occupazione femminile accanto a un altrettanto alto tasso di natalità e dove continuare a lavorare quando arrivano i figli non è un problema. Nel nostro Paese invece abbiamo uno dei tassi di occupazione femminile più bassi d’Europa accompagnato a uno dei tassi di natalità più bassi. Allora forse si potrebbe ragionare di più in un’ottica di famiglia e di parità di diritti sul lavoro. Ad oggi gli uomini possono godere del diritto alla paternità in misura ridotta rispetto alle donne. Questo non aiuta né le madri che lavorano a condividere nuovi impegni e carichi domestici nel momento in cui arrivano i figli, né gli uomini a entrare nel loro nuovo ruolo di padri, né gli imprenditori a compiere libere scelte nella selezione del personale. Sarebbe opportuno anche investire in politiche di welfare stabili. Non servono tanti strumenti, serve piuttosto stabilità nelle politiche. Negli anni abbiamo assistito a misure che hanno tentato a più riprese di fornire servizi alle madri che lavorano, (voucher babysitting; bonus asili nido; bonus bebè, etc) misure che hanno avuto una durata limitata nel tempo. Senza dubbio utili, ma la cui efficacia può essere tangibile solo e soltanto se si stabilizzano nel tempo. Lavorando in questa direzione è possibile invertire la rotta, contribuire a garantire alle donne un sostegno materiale per la tenuta della loro occupazione.”

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